Luca Calzolari

Appassionati di montagna

Seduto al tavolo di un bar lascio che il sole mi scaldi, gli occhi fissi sullo smartphone leggo la posta. Mentre con il dito indice ‘scrollo’ i messaggi, capto alcune parole di una conversazione che attraggono la mia attenzione. Alzo lo sguardo in direzione di chi sta parlando, poi lo distolgo rapidamente. Subito dopo fingo di leggere, e con orecchi indiscreti inizio ad ascoltarli. Lo so, dovrei farmi i fatti miei, ma riconosco l’argomento e sono fin troppo curioso. Parlano di vie di arrampicata, di difficoltà, di gradi. Uno racconta l’ultima scalata con un dettaglio maniacale. Poi, via via, il racconto passa al confronto con quelle del passato. Linee diverse, tecniche diverse, luoghi diversi, pareti diverse in paesi diversi. Sono due scalatori che si perdono nel mondo di una passione bruciante. Le chiacchiere sulle vie salite e su quelle da scalare insieme prendono tempo e, come quelle del primo incontro tra innamorati, non si curano dell’orologio. Non si smetterebbe mai di parlare. Già, ma anch’io mi sono sincronizzato sul loro tempo e non mi stacco. Non capisco cosa mi costringa a restare lì inchiodato a quelle chiacchiere, eppure non sono diverse da tante altre che ho ascoltato. Per fortuna lo smartphone è un complice perfetto per questa mia lunga invadenza, il digitale non è come un libro, non finisce mai. Da tempo nessuno fa più caso a una persona che passa ore davanti a un microcomputer da tasca a compulsare quel mondo di bit trasformati in significato e relazioni. È la normalità. A un certo punto, avverto una dissonanza e un fremito distonico attraversa la mia curiosità, e capisco cosa stavo aspettando e che invece non arrivava mai: in tutto quel narrare di linee e gradi, di mondi verticali, la montagna è del tutto assente. Già, la montagna. E allora ho smesso di intromettermi nei loro discorsi e ho iniziato a riflettere. In tanti, ascoltandoli, li avrebbero comunemente definiti appassionati di montagna. Però quell’assenza di riferimenti all’intorno, a ciò che non fosse il dettaglio della scalata, mi ha fatto pensare: è davvero così? C’è che si appassiona solo alla scalata, chi solo alla mountain bike, chi solo all’arrampicata libera, chi solo alla speleologia, chi solo al torrentismo, chi solo allo scialpinismo. E poi ci sono gli appassionati di montagna. C’è differenza? Penso di sì. Per carità, non sto colpevolizzando nessuno, né intendo mettere sotto processo l’amore totalizzante per una disciplina; e nemmeno mi permetto di pensare che una pulsione così forte escluda la passione per la montagna, perché ci sono tantissimi esempi che dimostrano il contrario. Farlo sarebbe sbagliato e da sciocchi. E poi chi di noi può dire di non aver sperimentato quella specie di furia interiore che specialmente da ragazzi catalizzava ogni momento della nostra giornata, in attesa di lasciare la casa e correre in montagna? Credo quasi nessuno. E allora perché questa riflessione? E dove sta la differenza? Per rispondere partiamo da qui. Da Sylvain Jouty, che in un passo di Eloge de la dissimulation (apparso su uno dei primi numeri di Passage, all’inizio degli anni Ottanta) scrive: «Il racconto alpinistico è parente stretto della pornografia: vi si trova, anche se in misura diversa, lo stesso desiderio di incollarsi alla realtà e la stessa poco cura per lo stile e per l’opera». In che senso? Nel senso che quando il racconto si limita alla narrazione ossessiva del gesto, della performance, allora sì, sfocia nella pornografia del passaggio. Quando si ha un atteggiamento pornografico, la montagna diventa il luna park.

La passione, nel significato che qui le attribuiamo, è l’inclinazione vivissima, il trasporto e il forte interesse per qualcosa. È un motore del fare. Però spesso la dedizione totalizzante parcellizza, concentra lo sguardo ed estranea, addirittura estrae dal contesto. Chiude nel dettaglio, se non ci si sforza si rischia di non vedere più cosa si ha sotto piedi. E non aiuta affatto a capire dove ci si trova. Se invece aggiungiamo po’ di curiosità, ogni furia mono-maniacale per una disciplina sportiva della montagna, abbandona il tasso di iniziale pornografia e si trasforma in un viaggio di maturazione. E allora l’orizzonte si amplia.

E l’attenzione per dove ci si trova completa, arricchisce il modo di vivere l’alpinismo e ogni altra disciplina della montagna, perché da dettaglio del gesto diventa relazione con il territorio e l’ambiente e con la sua tutela. La passione per la montagna affonda le radici nell’interesse per il paesaggio, per la cultura materiale e la storia, per il lavoro, l’ambiente e gli animali che lo abitano e per come anch’essi organizzano il loro vivere nelle Terre alte. Perché, dunque, questa riflessione? Perché c’è bisogno di avere chiara la differenza tra chi ama le Terre alte e chi considera valli, cime e pendii alla stregua di un accidente necessario per il proprio personale luna park. E non posso fare a meno di collegarmi all’Articolo 1 del nostro sodalizio: “il Cai … ha per scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale.”. Ecco perché essere Soci Cai è essere appassionati di montagna, ed ecco perché per me è importante farne parte. 


Peak & Tip, Montagne360 luglio 2020

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