Ma come parla… Come parla? Le parole sono importanti». Non è un sussurro, ma un grido. Col corpo chiuso in un accappatoio, la cuffietta da nuotatore in testa con il numero 5 in bella evidenza, Nanni Moretti urla contro l’abuso di luoghi comuni e anglicismi. Siamo alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, “Palombella Rossa” esce nelle sale cinematografiche. Un film che, come molti altri, rischierebbe di essere dimenticato se non fosse per certe scene lasciate in eredità. Sequenze e battute pluricitate, pur consapevoli che solo in pochi ricordano davvero la trama del racconto. Il linguaggio è un virus e come i virus ha diverse personalità, ci ha insegnato William Burroughs, padre della Beat Generation, che qualcuno ha definito “un grande fuorilegge della letteratura prima di diventare una delle icone culturali del Novecento”. Questa volta le citazioni puntano allo scopo, perché è proprio di parole che vogliamo parlare. E di quando il linguaggio può diventare un virus. Ma le parole e il linguaggio sono anche e soprattutto strumento per la manifestazione della responsabilità e della verità, come, con la stessa forza, non neghiamolo, sono strumenti del loro contrario. Nell’era del tutto e subito, dei social network e del city journalism, degli hashtag e dei tag, ragionare sul significato delle parole sembra anacronistico. Eppure mai come ora c’è bisogno di nuovi spazi di riflessione e analisi. Il tempo, che legittimamente spesso definiamo tiranno, non lascia scampo. Scorre implacabile, come le nostre vite. Il rapporto tra il tempo e l’evoluzione, sia quella della lingua sia quella tecnologica, e soprattutto quella del rapporto specie umana-pianeta sembra non concedere vie d’uscita.
E siccome un tema a noi caro è quello climatico, vogliamo fare chiarezza proprio a partire dall’uso delle parole. Ché, si sa, sono importanti. Da tempo sia- mo soliti chiamare le repentine variazioni del clima della terra con una definizione ben nota: “cambiamenti climatici”. Qual è il problema? Nulla, niente di scorretto. Eppure oggi sentiamo che in quella definizione c’è qualcosa di insufficiente. Sì, è vero, ce ne rendiamo conto solo ora. Perché anche noi, come molti altri, abbiamo cavalcato un’onda. Quella dell’universale comprensione, quella che era contemporanea al problema e denunciava il mutamento presentando i fatti con le parole della scienza. Ci siamo accorti, però, che questa consapevolezza non è sufficientemente efficace. Il perché, ancora una volta, è da ricercare nelle emozioni. Non è un mistero per nessuno il fatto che di fronte a qualsiasi catastrofe o avvenimento drammatico, la soglia d’attenzione dei cittadini-utenti non duri più di una settimana. Sette giorni di curiosità, letture di giornali e ricerche su internet. Poi più nulla. Basta, si volta pagina e a cambiare non è più il clima, ma l’argomento d’attualità. Così un nuovo disastro occupa il vuoto dello spazio emotivo lasciato dal disastro precedente. E si va avanti così, in un ciclo continuo che non favorisce la comprensione dei fatti né la conoscenza dei fenomeni e delle loro conseguenze. Perché quindi fare un passo avanti rispetto all’idea del “cambiamento” quando parliamo del clima? Semplicemente perché il mutamento è un dato di fatto. Qualcosa di insindacabile e inoppugnabile. Ai più scettici (anche ai negazionisti, pur consapevole della quasi inutilità) ricordo che non siamo noi a dirlo, ma la scienza. A noi spetta in sorte un altro compito: quello di contribuire alla promozione della cultura ambientale attraverso la spiegazione degli eventi. Purtroppo senza attenzione non c’è spiegazione che tenga. Da questa riflessione nasce quindi l’esigenza di rinnovare il lessico e, di conseguenza, anche le definizioni. Non più cambiamento climatico, quindi, ma crisi. Crisi climatica. È questa la prima delle tante soluzioni possibili che anche The Guardian ha deciso di utilizzare. Il concetto stesso di cambiamento, che di per sé potrebbe non essere intrinsecamente percepito come negativo, ormai non rende più l’idea di ciò che sta accadendo. Per questo occorre spingerci oltre chiamando le cose con il loro nome. Se una crisi climatica è in atto, allora chiamiamola col suo nome: crisi. Nel dirlo, non facciamo mistero del fatto che a ispirare certi pensieri siano stati anche Greta Thunberg e tutti quei ragazzi che hanno spontaneamente aderito al movimento ambientalista Fridays for future. Da questi giovani abbiamo tanto da imparare. Ricominciare dalle parole, quindi, è un passo verso la responsabilità e contro i virus nascosti nel linguaggio che tanti danni producono. Passo che le giovani generazioni chiedono senza mezzi termini: compierlo potrebbe essere un tassello per l’inizio di un nuovo patto tra generazioni.
Peak & Tip, Montagne360 luglio 2019