Il fuoristrada giallo del Cnsas è uscito di strada. Davide era su quella jeep e la vita ha iniziato a spegnersi in quel maledetto istante, mentre stava andando a fare un intervento di soccorso alpino. E anche Mario, Valter e un altro Davide hanno perso la vita quest’anno in Abruzzo mentre erano impegnati a salvare vite umane. Prima, nell’orribile 2009, è accaduto a tre colleghi veneti quando è precipitato “Falco”, l’elicottero del Suem 118 di Pieve di Cadore. E pochi mesi dopo a quattro soccorritori trentini travolti da una valanga in Val di Fassa. Via via indietro nel tempo altri soccorritori hanno perso la vita. Non posso citarli tutti, ricordo solo Massimiliano del soccorso speleologico, morto nel 1990 nell’abisso del Veliko Sbrego sul Canin. Ho appena partecipato all’ultimo saluto a Davide. Davide era nato in montagna e aveva scelto di tornare a vivere in montagna, a Cerreto Alpi. Faceva parte dei Briganti, una cooperativa di comunità di cui abbiamo parlato su queste pagine. Era un brigante della montagna perché – come ha ricordato il sacerdote che ha officiato la funzione funebre – «brigava» per la montagna, ovvero con la sua scelta di vita «si era preso la briga» di operare per mantenerla viva. Anche attraverso il soccorso alpino. Perché per aiutare chi è in difficoltà su vette, crinali, sentieri e pareti vicino casa bisogna essere lì nei pressi. Ed è un’altra ragione per restare e un altro modo di aiutare la vita nelle Terre alte. Nelle nostre montagne – e tra i volontari del Cnsas – di storie come la sua ce ne sono tante, e tutte in qualche modo sono storie di briganti. Storie concrete di fatica e sogni. Da molti anni sono un volontario del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico del Cai (Cnsas). Ogni volta che qualcuno di noi perde la vita capisco perché, al di là del lessico formale, siamo un corpo: oltre alla profonda tristezza e al groppo nella gola, provo anche una sorta di dolore fisico. Un dolore che percepisco come una piccola parte di quella ferita comune che si apre e che si deve rimarginare in quel Corpo più grande fatto di carne, muscoli, occhi, orecchie, mani e piedi, unghie e nasi di cui io sono uno delle migliaia di pezzetti che lo compongono. Un Corpo che non conosce ostacoli quando deve scattare per prestare soccorso, che gioisce e soffre insieme. E, parlando con amici soccorritori, scopro di non essere l’unico a provare questa specie di sensazione fisico-emotiva. E non importa se alcuni dei colleghi caduti non li hai mai incontrati, o se con altri ti sei appena incrociato. Quello che si prova non cambia. Certo, siamo un Corpo perché ciascuno di noi da solo potrebbe fare ben poco. O forse ci sentiamo corpo perché quello con la montagna è anche un rapporto fisico. Sarà che essere volontari del Cnsas significa assumersi – e condividere tra noi colleghi – la responsabilità di una scelta quasi totalizzante, significa mettere in gioco anima e corpo, significa accettare un elevato grado di rischio perché solo così possiamo aiutare gli altri. Significa scommettere e contare sulla comprensione dei nostri cari, sulla loro capacità di essere forti e di condividere la nostra scelta anche nel terribile momento in cui essa li priva definitivamente del sorriso che da noi ricevono ogni giorno. Normalmente evito di trattare temi che mi coinvolgono oltre un certo grado emotivo. Ho derogato perché nel tempo si impara a guardare più a fondo al significato delle parole. Accade che alcune di quelle che ho pronunciato e scritto più volte dandole per scontate, e con le quali in fondo ho sottoscritto un patto, decidano di uscire per riportare a galla il senso oltre il lessico. Quel significato nascosto che ogni parola assume in uno specifico contesto. E in un mondo pieno di parole che non obbligano a nulla, a volte quelle parole che ti stanno accanto con discrezione ti aiutano a capire la bellezza, l’importanza e la fortuna di essere parte – anche con il tuo corpo – di quel Corpo fatto di donne e uomini che insieme lo rendono straordinario.
Peak & Tip, Montagne360 dicembre 2017