Luca Calzolari

La sesta estinzione

C’era una volta la pernice bianca e c’erano una volta anche l’orso bruno, lo stambecco, i pipistrelli e le aquile. C’era perfino il lupo, che nelle favole aveva quasi sempre il ruolo del cattivo. C’erano questi animali, una volta. E alcuni, oggi, ci sono ancora. Ma sono pochi, anzi pochissimi. Questo potrebbe essere l’incipit di una storia per ragazzi raccontata nel prossimo secolo. Al di là di ogni possibile trasposizione letteraria, le vite di questi animali sono ogni anno più difficili. La lotta, quella vera, è per la sopravvivenza. Ma non è il ciclo naturale a mettere a repentaglio le loro esistenze. No, niente di tutto questo. Perché, a pensarci bene, sarebbe una spiegazione accettabile. La colpa, ancora una volta, è della specie umana, cioè nostra. Scorrendo un’anticipazione del nuovo “Global assessment report”, documento prodotto dalla Piattaforma intergovernativa per la biodiversità e servizi ecosistemici (Ipbes) dell’Onu (che si è riunita tra il 29 aprile e il 4 maggio), tra le principali cause che stanno determinando l’estinzione di un milione di specie animali e vegetali (sugli otto milioni presenti sulla terra, ovvero più del 12 per cento) vi sono, nell’ordine: cambiamenti nell’uso della terra e del mare, sfruttamento diretto degli organismi, cambiamenti climatici, inquinamento. Quindi sì, lo ripetiamo, è colpa nostra. È a causa dell’uomo se il tasso d’estinzione sta accelerando a un ritmo «senza precedenti nella storia umana». È così che si legge sul rapporto a cui hanno lavorato per tre anni ben 145 scienziati di 50 paesi diversi. Se guardiamo all’Europa, possiamo dire (con malcelato rammarico) che c’era una volta anche l’allodola, che c’era la piccola farfalla blu. C’erano anche api e insetti, ma un terzo di loro è a rischio estinzione. «Siamo all’inizio della sesta estinzione di massa della storia, la prima attribuita all’uomo e alle sue attività» trovo scritto nel rapporto. È impressionante che negli ultimi secoli, sempre per mano dell’uomo, siano già scomparse 680 specie di vertebrati. E non abbiamo imparato niente, nonostante tutto. O meglio, forse ci conveniva non imparare. Come se ciò non bastasse c’è chi continua a scrivere la favola nera dell’estinzione, credendo inutilmente di essere immune da tutto questo. Eppure – come ha recentemente ricordato in una trasmissione televisiva lo scienziato, docente di neurobiologia vegetale e scrittore Stefano Mancuso – le piante rappresentano quasi tutto ciò che è vivo sul nostro pianeta. «Noi uomini non siamo niente» ha detto. «Abbiamo la presunzione di essere la cosa migliore che esiste. L’albicocco – fa presente Mancuso – esiste da milioni di anni, noi solo da trecentomila. Questo ci fa capire che stiamo facendo qualcosa di sbagliato. La vita media di una specie è di cinque milioni di anni. Noi ce la faremo?». Una domanda a cui è difficile trovare risposta. O forse no. Quel che è certo è che leggendo la lista rossa stilata dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) scopriamo le dieci specie di animali a rischio estinzione in Italia. Si tratta dell’orso bruno marsicano, dell’aquila, del capovaccaio. E poi, ancora, la pernice bianca, le farfalle diurne, il lupo (quello vero, non il cane randagio ibridato con il lupo), lo stambecco alpino, i pipistrelli, le anatre mediterranee e il pelobate fosco (noto anche come rospo dell’aglio). Questo elenco suona come un’annunciazione di morte perché siamo nel bel mezzo di una favola nera. Dell’allarme dell’Onu se ne è parlato il mese scorso anche sui giornali. Mi ha colpito la prima pagina de La Repubblica (7 maggio). Sotto la bellissima foto dell’orango Sumatra, anch’esso a rischio estinzione, c’era un titolo secco che riporto fedelmente: “Guardami per l’ultima volta”. Un invito che suona come un addio. Ma che, in realtà è uno stimolo ad agire, oltre che a capire. Perché i numeri, le percentuali, le ricerche e i report sono essenziali per fotografare una situazione. Ma se a tutto questo non corrisponde un cambiamento culturale non sarà possibile invertire la rotta suicida che abbiamo autonomamente intrapreso. Che non tutto è perduto lo si capisce anche da piccoli segnali. La sensibilità ambientalista che sembra diffondersi sempre più, soprattutto tra i giovani, forse sta incidendo anche sulle abitudini. Ed ecco la buona notizia: secondo le prime stime Eurostat sul 2018, rispetto all’anno precedente le emissioni di CO2 da utilizzo di combustibili fossili sono diminuite sia in Italia (3,5%) sia in Europa (2,5%). Queste emissioni sono le maggiori responsabili del surriscaldamento globale. Insomma, le specie di questo pianeta (umani compresi) forse non godono di ottima salute. Ma il futuro è nelle nostre mani. Quindi possiamo riscrivere l’incipit e il finale di questa storia.

Peak & Tip, Montagne360 giugno 2019

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