Luca Calzolari

L’ecoansia, una nuova fragilità

L’ecoansia, questa (quasi) sconosciuta. Non sentivamo la mancanza di un nuovo termine che andasse ad arricchire il nostro vocabolario emotivo. Eppure per definire certi fenomeni oc- corrono parole nuove, come nuovi sono certi disturbi che, guarda caso, colpiscono soprattutto i più giovani. Colpa – o merito? – della consapevolezza e della sensibilità per il pianeta e per la vita. Ma facciamo un passo indietro: spesso ci siamo sentiti dire che la migliore soluzione ai nostri mali è una bella passeggiata all’aria aperta. Detta così, ai giorni nostri, potrebbe sembrare un’affermazione semplice, ai limiti della banalità. Nei secoli scorsi patologie respiratorie, come ad esempio l’asma, venivano curate con soggiorni in ambienti salubri, al mare o in montagna. Ci sono anche tracce letterarie che possiamo ritrovare nelle parole di Thomas Mann, che per La montagna incantata trasse ispirazione dal soggiorno della moglie affetta da malattia polmonare nel sanatorio svizzero di Davos. Che l’ambiente naturale (specialmente quello montano) sia fondamentale per il benessere psicofisico lo hanno riscoperto in molti sulla propria pelle quando la pandemia ha sottolineato l’importanza indispensabile del vivere in un ambiente salubre, a contatto con la natura. In questi tempi complessi stanno insorgendo nuove fragilità, nuove ferite emotive legate alla salute del pianeta e si stanno creando altre ombre che incombono sui nostri umori e sulle nostre sensazioni: i timori per le conseguenze della crisi climatica. Un disturbo che, come ho già ricordato, ha trovato perfino una definizione dedicata: ecoansia. A coniarla è stato il filosofo ambientale australiano Glenn Albrecht. E anche se lo psicoterapeuta Matteo Innocenti ne ha parlato nel suo ultimo libro (Ecoansia. I cambiamenti climatici tra attivismo e paura, ed. Erickson, 2022), già cinque anni fa l’American psychological association, parlando di “climate anxiety”, indicava con quel termine la “paura cronica” della distruzione ambientale. No, ovviamente non si tratta dell’ennesima sirena che suona a vuoto. Ma faremmo un errore se considerassimo con eccessivo allarmismo questo fenomeno, e vi spiego perché. Non dobbiamo quindi cedere alla tentazione di sventolare bandiera bianca o alzare le mani in segno di resa. Tutto è basato su dati reali, e il paradosso di questo ragionamento emerge andando a fondo delle questioni. Perché leggendo i dati scopriamo che i più colpiti dall’ecoansia sono proprio le persone più consapevoli dei problemi e degli effetti che sul breve e lungo periodo possono essere causati dalla crisi climatica. Di chi stiamo parlando? Ve l’ho già detto: dei giovani, quelli dai 35 anni in giù. Ma non tutto il male vien per nuocere. Se sono proprio i più giovani ad aver paura del futuro, forse anche noi dovremmo interrogarci su quale può essere il nostro ruolo in un contesto come questo, che si fa via via sempre più fragile. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica britannica The Lancet, 6 giovani su 10 (tra i 16 e i 25 anni) sono “estremamente preoccupati” per il cambiamento climatico, mentre l’84% si è dichiarato “moderatamente preoccupato”. Allora tutto è perduto? Niente affatto. Prima di tutto colpisce positivamente il fatto che quest’emozione sia figlia della consapevolezza dei più giovani, che dimostrano di avere a cuore il loro destino e quello del mondo. In secondo luogo l’ansia, almeno finché non diventa patologia, può essere canalizzata in qualcosa di positivo che si traduce e concretizza nelle reazioni, nella partecipazione e nell’attivismo. L’enorme quantità di ragazzi e ragazze che aderiscono al Fridays for Future ne sono la dimostrazione più evidente. Al netto di tutto questo, se esiste un bisogno urgente di lenire certe pene, be’, esistono soluzioni possibili e a portata di mano. Jack Kerouac scriveva: “Pensa che grande rivoluzione planetaria ci sarebbe se milioni di ragazzi di tutte le parti del mondo con i loro zaini sulle spalle cominciassero ad andare in giro per la natura”. Lo psicoterapeuta Matteo Innocenti suggerisce, infatti, alcune auto-cure che non a caso hanno a che fare col nostro mondo: riconnessone con la natura, meditazione, attivismo per l’ambiente e camminate nei boschi «respirando i suoi odori, come quello delle cortecce degli alberi», perché anche in questo caso è stato scientificamente dimostrato che «rilasciano sostanze antidepressive e ansiolitiche».

Peak & Tip, Montagne360 giugno 2022

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