Non c’è mai un luogo sbagliato per parlare di montagna. E ovunque lo si faccia, c’è sempre qualcuno che è istintivamente predisposto all’ascolto. Più spesso siamo noi che ci chiediamo se a chi frequenta quel luogo potrà mai interessare il nostro racconto. Del resto vivere le Terre alte non è un’esclusiva riservata a pochi. Le montagne fanno parte dell’esperienza umana, così come tutti gli elementi presenti in natura. E non dobbiamo sentirci in colpa se prendiamo da loro tutto il bello che c’è. Perché le montagne offrono opportunità che per molti sono inimmaginabili. I soci Cai sanno bene quante attività e quante relazioni nascono e si sviluppano tra i boschi, nelle valli e lungo i sentieri, quando ci si lega insieme e quando si condivide il buio magico delle grotte. E quanto esse aiutano a ritrovarsi. Lo sanno loro, che sono gli abituali frequentatori delle montagne. Ma a volte condividere queste narrazioni con nuovi pubblici-interlocutori inediti che trovano sani elementi di curiosità e attrazione nei nostri (e vostri) racconti – significa aprire nuove porte. Cosa voglio dire? Semplice: quelle porte non sono altro che un esplicito invito all’accoglienza e rappresentano il ponte culturale e dialettico attraverso il quale è possibile allargare e rafforzare la nostra famiglia. Siamo soliti parlare della montagna in luoghi che parlano di montagna, rivolgendoci a chi spesso quelle parole già le conosce. Ma ogni luogo è il luogo adatto, così come ogni pretesto è buono per offrire un’altra lente per guardare alla montagna a chi conosce meno quelle parole. Forti di queste premesse siamo scesi a valle, fin quasi a raggiungere il mare. E siamo arrivati fino a Lucca, che nella sua variegata provincia abbraccia sia la Versilia sia le bellissime Alpi Apuane, da cui si vede la costa. Il pretesto è un evento “scomodo”, proprio come il nome che porta. Eravamo lì per il Festival italiano del volontariato. Che all’interno del Club alpino italiano ci sia una forte spinta solidale, questo è ben noto. Ma se abbiamo partecipato al Festival è stato per raccontare storie che con questo mondo hanno molto a che fare. Sì, stiamo parlando di montagnaterapia. Ovvero della montagna che aiuta, che cura, che include, che crea benessere e che offre nuove opportunità a chi, per cause che non andiamo a indagare, ha dovuto fare i conti con una vita difficile. E allora, attingendo ad alcune esperienze territoriali, abbiamo raccontato tutto questo attraverso la voce di chi ha aperto virtualmente le porte del cuore. Sono le storie di chi arrampica con i non vedenti, di chi scende in grotta con tossicodipendenti, di chi organizza trekking ed escursioni con persone che hanno disabilità psichiche e motorie, di inserimenti lavorativi in rifugi sociali (tutti temi che affronteremo di nuovo più avanti). Storie che arrivano dalla Toscana, dal Piemonte, dal Trentino-Alto Adige. Nel febbraio dello scorso anno, su queste stesse pagine, dedicammo uno speciale al tema della montagnaterapia. Ricordo che nell’introduzione scrissi che la montagna che accoglie è una montagna che non fa distinzioni. Così si impara a stare insieme, a far gruppo. «Il passo dell’altro diventa il mio passo e la bellezza prende la forma di una disciplina che segue linee e percorsi solo apparentemente distanti. La montagna aiuta ad abbattere i pregiudizi e le differenze, si fa sociale e trova la sua funzione e il suo spazio anche in ambito socio-sanitario. Perché la montagna cura, ma è molto di più di una semplice terapia. È anche il luogo per scoprire nuove libertà e recuperarne alcune. Magari proprio quelle che erano state smarrite lungo un altro percorso. Quello della vita». Ho ripensato a queste parole, scritte nero su bianco, quando ho conosciuto l’alpinista cieco Giuseppe Comuniello e il suo istruttore Aldo Terreni del Cai di Firenze (fondatore, insieme a Eleonora Bettini, del gruppo “La montagna per tutti”). Al Festival, il cui sottotitolo era appunto “mettiamoci scomodi” (perché questa è la posizione di chi lavora al fianco dei tanti invisibili), c’erano anche loro. Ciò che sorprende non è il fatto che Aldo, durante le arrampicate, diventi la voce guida di Giuseppe utilizzando radio e ricetrasmittenti. No, a sorprendermi e a emozionarmi sono state le loro parole. «Quella corda che ci lega in parete è una metafora della relazione che ci unisce», ci ha detto Aldo. «E io di lui mi fido ciecamente», gli fa eco Giuseppe con ironia. E così una nuova parete viene scalata, e un’altra porta si apre. Oggi, domani, ogni giorno.
Peak & Tip, Montagne360 luglio 2018