
C’è una profonda differenza tra la realtà percepita e quella dei fatti. Anche le menti più brillanti e gli animi più sensibili pare facciano fatica a districarsi nella matassa di un’informazione che colpisce la pancia e che racconta sempre più spesso cronache di sangue dimenticando le buone notizie. Queste dimensioni esistono entrambe, ma faticano a convivere. Se non ci sforziamo di andare oltre il grido d’allarme e quella sensazione di paura e pericolo che nasce dalla trasmissione empatica di continue minacce, allora sarà difficile recuperare quell’umanità che ci dovrebbe appartenere per natura e per cultura. La realtà percepita, oggi, ci racconta di un mondo in cui aiutare gli altri rappresenta quasi un tratto negativo del nostro essere e che ci fa sentire dalla parte sbagliata. O, se vogliamo, sul “versante” sbagliato. Criminalizzando la solidarietà disumanizziamo noi stessi. Se questo accadesse davvero, allora sarebbero guai. Perché l’uomo che si disumanizza perde tutto ciò che ha, a cominciare dalla propria anima. L’umanità è quel sentimento civile che mette davanti a tutto il soccorso alle persone che, rischiando la morte, fuggono da guerre e miseria e approdano stremate in terre lontane nella speranza di un avvenire migliore. In questi casi un Paese è ‘umano’ se prima le salva e restituisce loro la dignità di esseri umani, e poi solo dopo verifica chi sono, a che cosa hanno o non hanno diritto e quant’altro. «Salvare vite umane non può non essere la priorità per ciascun essere umano al mondo, in qualsiasi circostanza si trovi» dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, ovvero l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Secondo i dati in loro possesso arrivano in Italia meno persone di un tempo, ma il numero dei morti è drammaticamente aumentato. Fortunatamente c’è chi dialoga coi migranti tendendo loro una mano. Del resto la maggioranza di essi non sono altro che persone bisognose di protezione, che desiderano poter ripartire con le loro vite ancora intatte. Non molto tempo fa, proprio in questa rubrica, raccontai una storia di civile umanità. Quella della guida alpina francese Benoît Ducos – falegname, ex sciatore di primo soccorso, volontario dell’associazione “Tous Migrants” – che in mezzo alla neve delle Alpi ha salvato un’intera famiglia di migranti. Ma per aver fatto salire in auto la donna, incinta e in fase di travaglio, ha rischiato il carcere. L’accusa? Lo ricorderete: immigrazione clandestina. A inizio luglio, invece, ecco la buona notizia che aspettavamo: secondo quanto riporta la stampa, per la Corte Costituzionale francese aiutare i migranti non è un reato. Anzi offrire loro assistenza, è in sintonia con la “fratellanza”, principio cardine del diritto transalpino. Un intervento necessario, non c’è che dire, ma forse un po’ tardivo. Su M360 dello scorso giugno Emanuele Confortin ci ha raccontato di quando l’esodo incontra le Alpi e di coloro che offrono assistenza ai migranti che si apprestano a valicare i passi alpini inseguendo l’idea di un futuro migliore. E ancora la SAT, Società degli Alpinisti Tridentini, si occupa di rifugiati e montagna attraverso iniziative di sensibilizzazione come “Oltre le mura”, nata in collaborazione con l’Associazione Astalli, e che si è svolta a giugno al Rifugio “Damiano Chiesa”. Nella locandina di presentazione, gli organizzatori invitano “ad alzarsi più in alto dei muri, ideali e reali, che sorgono sempre più numerosi nel mondo, a saperli superare con la nostra mente, andando aldilà degli egoismi e della difesa dei nostri privilegi.” E ancora con “Cima libera tutti”, un progetto d’inclusione della Susat, la Sezione Universitaria della Sat. Non sono muri, cancelli, frontiere chiuse e respingimenti indiscriminati che risolvono il dramma di chi scappa da una guerra ne quello della forte migrazione economica di oggi e di domani, quest’ultima sospinta anche dagli effetti del cambiamento climatico (secondo uno studio di marzo 2018 della Banca mondiale entro il 2050 gli spostamenti dei ‘migranti climatici” riguarderanno 143milioni di persone). Così come non sono la soluzione per gestire il reale problema del nostro Paese e dell’Europa di fronte alla forte pressione migratoria. Per noi le montagne sono cerniere e non barriere tra gli uomini perché la montagna – e chi la frequenta – incarna valori e princìpi di fratellanza, solidarietà e umanità. Sono (e restano) un luogo d’incontro, di socializzazione, di accoglienza, di spiritualità. Allora per chi crede che la montagna sia portatrice di questi valori umani, il significato di cerniera diventa anche la capacità di opporsi concretamente alle barriere della disumanità, sostenere e dare vita a esperienze virtuose di dialogo e accoglienza. Come quelle della Sat, e di tante altre in ambito Cai, come quelle dell’Alta Val Susa e del brianzonese in cui comuni, Ong e cittadini (si badi bene, italiani e francesi) operano insieme per l’accoglienza dei migranti nelle aree di confine. Non lasciamoli soli.
Peak & Tip, Montagne360 settembre 2018