
Non c’è alcun pregiudizio, almeno da parte nostra. Per mestiere e attitudine, siamo osservatori attenti del mondo della comunicazione. Più volte mi sono interrogato su quale fosse il punto zero, ovvero quello in cui le relazioni sociali sono diventate “social”. Internet ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo e l’avvento dei social media ha fatto il resto. Una straordinaria rivoluzione con i suoi pro e i suoi contro. Da quel momento ho raccolto spesso opinioni nette e contrastanti: da una parte c’è chi li critica ferocemente, dall’altra chi li esalta acriticamente. I social, se ci pensiamo bene, non sono né buoni né cattivi. È sempre l’uso che se ne fa a tracciare la linea di demarcazione. La questione non riguarda solo le degenerazioni che sono causa di problemi sociali e di corruzione nella comprensione dei fenomeni (dalla diffusione del cyberbullismo alle fake news). Ce n’è una che ha a che fare con il tempo di permanenza e, soprattutto, con l’importanza che si attribuisce a cuoricini e pollici all’insù che di ogni post misurano l’apprezzamento da parte dei followers. Ora, forse non a torto, vi domanderete cosa c’entra tutto questo con la montagna. C’entra eccome, perché la montagna e chi la frequenta sono molto presenti soprattutto su Facebook e Instagram. Ogni giorno, per lavoro, ne osserviamo la narrazione che, come abbiamo avuto modo di affermare in diverse occasioni, sovente non riesce a rispondere ai canoni della bellezza (nel senso qualitativo più profondo del racconto) e spesso gli autori dei post cadono nell’autorappresentazione e nel marketing di se stessi. L’ambiente diventa pura e nuda scenografia e si va a caccia di “Like”. Quest’ultimo aspetto è delicato: i “Like” di Facebook e i “cuori” di Instagram (tutti elementi che, guarda caso, hanno a che fare con le emozioni) sono infatti la misura del “successo” di un contenuto e ne definiscono (spesso erroneamente) il suo valore. Ma non tutto quello che è popolare è automaticamente un contenuto di qualità. Troppo spesso, infatti, inseguiamo la ricerca del consenso a scapito della narrazione. E questo condiziona i comportamenti e compromette l’equilibrio dei contenuti presenti sui social. Instagram ritiene di averlo già capito e, per certi versi, ha deciso di correre ai ripari avviando una sperimentazione che dopo il Canada ha coinvolto anche alcuni utenti italiani e che pre- vede la scomparsa del numero dei like (e quindi dei cuori) di ciascun contenuto. Solo l’autore può vedere quanti hanno espresso il loro apprezzamento e accedere alla lista dei nomi di coloro che hanno cliccato sul cuore rosso. Il perché della scelta? Ora Instagram afferma che vuole che la sua piattaforma – che ha oltrepassato di gran lunga il miliardo d’iscritti e che in Italia vede un trend in costante crescita – diventi un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi, svincolandosi per la prima volta dal condizionamento dei Like. Alcuni fanno notare come per i più giovani (anche quelli che vanno in montagna), ovvero coloro che rappresentano la maggior parte degli utenti di Instagram, oscurare i “Like” può essere un rischio. In un’intervista rilasciata a La Repubblica, Luca Melone, specializzato in psicoterapia degli adolescenti, afferma che oscurarli da un giorno all’altro «potrebbe avere conseguenze inaspettate, oltre a depotenziare uno strumento che agisce sul sistema della ricompensa. Ogni “Like” che si riceve, rilascia dopamina, dà assuefazione. Il rischio di crisi di astinenza è possibile». E prosegue : «Oggi la nostra società si muove fra due estremi, l’onnipotenza e quindi il riconoscimento o il contrario, l’invisibilità, la non forma». Penso che il rischio di crisi di astinenza “da riconoscimento” lo corrano anche gli adulti, così come sono convinto che tutte le dipendenze, quindi anche quelle digitali, siano dannose e debbano essere combattute. Dunque la sperimentazione che privilegia il contenuto e ci libera dall’ossessione del numero dei followers è l’inizio di una controrivoluzione? Non so. Ma, com’è giusto che sia, la priorità sarà la qualità del contenuto. Leggiamola anche come opportunità che potrebbe aiutare a cambiare l’eccesso di narrazione dell’esperienza della montagna come gesto epico individuale per ritrovare l’equilibrio tra il bisogno del riconoscimento e il racconto della bellezza e delle emozioni che ci procurano l’alpinismo e l’escursionismo. Tutto questo a prescindere dagli algoritmi imposti e modificati a nostra insaputa per fini economici dai colossi del social-networking.
Peak & Tip, Montagne360 settembre 2019