
Lockdown. È stata questa la parola chiave della fase d’emergenza nella lotta alla pandemia. Riassume contemporaneamente l’isolamento delle persone e il blocco delle attività. Non c’è che dire, è una parola efficace. Stavolta calza bene anche l’inglesismo, perché la pandemia ha coinvolto tutti i Paesi del mondo. Se è quindi vero che lockdown è una parola azzeccata, è altrettanto vero che non ce n’è una altrettanto efficace e capace di descrivere con la stessa chiarezza la “Fase due”. Non c’è semplicemente perché non può esserci, lo sappiamo. La “Fase due” è troppo complessa e diversa dalla precedente. Se prima dovevamo fare i conti con poche ed essenziali certezze (leggi: restare in casa), ora le variabili sono aumentate, e anche le differenze. È sufficiente pensare ai territori, alla densità della popolazione, alla geografia, ai bisogni e alle regole di comportamento. Il progressivo allentamento delle misure di contrasto ci ha consentito, nel rispetto delle norme, di tornare a fare escursioni in montagna. Ne avevamo bisogno. In montagna respiriamo, e respirare aiuta il pensiero. E allora, come se fossimo su una vetta, proviamo ad andare con lo sguardo oltre l’orizzonte noto. Questa “Fase due” è la fase dell’incertezza in cui si sperimentano modalità e tempi di ripresa, il momento nel quale il Paese e la montagna si stanno riorganizzando. Ci si muove tra cautela e necessità. È in questa fase indeterminata che si giocano diverse partite. Lo abbiamo detto, scritto e ripetuto più volte: ci affacciamo a tempi complessi, sconosciuti, da comprendere e decifrare, durante i quali, come scrivevo in questa rubrica il mese scorso, probabilmente dovremo cambiare spesso i piani, adattarci rapidamente a ciò che verrà. Per questo è necessario procedere con le dovute cautele, senza eccessi. La vita della comunità riparte. Ma come? E in montagna, come ridisegnare un futuro stabile per le già precarie economie, messe a dura prova dalla sospensione forzata del tempo (e delle attività)? Proviamo a ragionarci su, qualsiasi sia la traiettoria dei nostri sentimenti o dei nostri pensieri. Il virus ci ha feriti, certo. Ma i cambiamenti di oggi ci obbligano a ragionare sul domani. In ogni caso, è proprio a partire dallo spazio di questa prima, parziale apertura della “Fase due” che si concentrano le nostre riflessioni. Perché tra le tante quotidianità possibili, sappiamo bene che i nostri giorni sono l’incubatore del pensiero che riguarda il futuro. Non un pensiero astratto, ma concentrato su un obiettivo concreto. Concreto come la roccia. È con la consapevolezza del preciso momento in cui, da subito, abbiamo iniziato a interrogarci sul tempo immediatamente successivo al lockdown che crediamo necessario lasciare un po’ di spazio al ragionamento sul lungo periodo. La “Fase tre”, invece, deve ancora essere scritta. E serve progettarla con urgenza, altrimenti si rischia di continuare sulla solita strada che continuerà a fare danni. Servono regole nuove. Direte che mi ripeto. Lo faccio perché sono convinto della necessità di ripensare gli equilibri mettendo al centro una visione sistemica per ridefinire il nostro modello di sviluppo e di vita. Recentemente sul Corriere della Sera mi è capitato di leggere che Kim Stanley Robinson, noto scrittore di fantascienza, in un articolo apparso sul New Yorker ha sostenuto che la pandemia ha accelerato il nostro modo di pensare. Lo ha sincronizzato con il tempo che stiamo vivendo e sta ridisegnando la nostra capacità di immaginare. Costringendoci ad agire, il virus ci ha fatto capire che siamo capaci di farlo. Di mettere in moto il cambiamento. Robinson analizza come ciò possa aiutarci ad affrontare la crisi climatica. Sono abbastanza concorde con il suo ragionamento di fondo. Questa del Covid-19 è una lezione appresa da non sprecare. Perché ci giochiamo il futuro. Proviamo dunque a cambiare abitudini, recuperiamo ovunque il deficit di ecologia, smettiamo di truffare chi verrà dopo di noi (sono parole di Robinson) per ricavarne oggi un vantaggio immediato. Ridisegniamo il peso delle attività umane. Impegniamoci a non essere inutilmente aggressivi ed egoisti nell’idea di futuro. Facciamo in modo che fin da subito la montagna diventi il laboratorio per realizzare un nuovo equilibrio ponendola al centro dell’idea di ripartenza. È in mezzo a questo presente pandemico che dobbiamo gettare semi d’avvenire. Che è il futuro progettato. E forse, se cominceremo a realizzare questo proposito, un giorno qualcuno troverà poi il nome adatto alla “Fase tre”. A noi spetta di non sprecare l’opportunità di cambiare.
Peak & Tip, Montagne360 giugno 2020