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La comunicazione del rischio per la prevenzione
Prevenzione è il termine che in italiano indica il complesso di azioni da mettere in atto per limitare al massimo i danni futuri alle persone e al territorio. Qui mi concentro sulla prevenzione non strutturale in ambito di protezione civile. Tra le azioni necessarie alla prevenzione ce n’è una (un insieme, in realtà) che ha a che fare con le persone: promuovere comportamenti di autotutela attraverso l’acquisizione della consapevolezza del rischio e dei potenziali danni a cui ci espongono gli aspetti fisici (in senso ampio) e antropici del territorio in cui viviamo. O in altre parole informare le persone per aiutarle ad accettare il rischio che proviene dal fatto di vivere in un ambiente fragile e stimolarle a organizzarsi per prevenire e limitare i danni derivanti da eventuali emergenze.
Creare e mantenere una relazione di fiducia
Non c’è però prevenzione senza comunicazione del rischio. La seconda è funzionale alla prima. La teoria e la prassi collocano la prevenzione nella fase che precede l’emergenza. Giustissimo. Ma, nel nostro caso, una difficoltà sta nel fatto che l’efficacia di un messaggio in tempo ordinario è spesso vanificata dalla labile percezione di chi lo riceve. Senza emergenza spesso non c’è attenzione, non c’è quell’onda emotiva che fa drizzare le antenne anche ai cittadini lontani chilometri dal cuore della catastrofe. In quelle occasioni leggono e socializzano le info-grafiche di “Io non rischio” (la campagna di comunicazione del Dipartimento della protezione civile, Anpas, Ingv e ReLuiss) che spiegano cosa fare per esempio in caso di terremoto. Ciò non significa che passata l’emozione le antenne restino sintonizzate. La comunicazione del rischio va fatta soprattutto in tempo ordinario, ed è fondamentale per creare e mantenere una relazione di fiducia con i destinatari: per riuscirci, bisogna dire la verità. Un lavoro complesso che necessita di tempo e a cui bisogna prestare molta attenzione. Serve parlare con un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti, il più possibile vicino alle conoscenze e al linguaggio dei destinatari. Senza naturalmente perdere l’esattezza scientifica. Qui si gioca una partita importante rispetto alla percezione del rischio di una comunità e dei singoli. Per tanti è difficile comprendere e accettare che il luogo in cui viviamo e ci sentiamo sicuri non è a rischio zero, e che la nostra sicurezza aumenta nel momento in cui accettiamo il rischio e ci prepariamo ad affrontarlo. Del resto sembra che neppure l’essere protagonisti di un’emergenza faccia scattare una piena consapevolezza. Valentina Grasso, in una ricerca per Consorzio Lamma sulla percezione del rischio, realizzata a Firenze a oltre mezzo secolo dalla grande alluvione del 1966, afferma che chi ha vissuto l’esperienza e ha subito danni ha una percezione elevata del rischio. Grasso fa però notare un paradosso “Se si è vissuto un evento alluvionale ma non si è subito alcuna perdita, ci si sente più sicuri”. Già, perché questo è un aspetto del problema: per quanto si possa essere toccati (o sfiorati) da una catastrofe, solo se si è costretti ad arrivare alla conta dei danni si consapevolizza quanto rischiosa sia un’alluvione. O un terremoto, o un maremoto. È anche questa una tendenza da invertire. Le attività di comunicazione del rischio sono funzionali alla prevenzione se pianificate e svolte per cicli ricorsivi. Per dirla in altro modo vanno fatte sempre. Sono manutenzione, aggiornamento, contrasto alla perdita di attenzione. Per fare un esempio concreto, la continuità è funzionale alla corretta interpretazione dell’allerta meteo. Tanto più saremo stati bravi a stabilire un rapporto di fiducia, a fare informazione e formazione su rischi e comportamenti, tanto più le allerte risulteranno efficaci e credibili e mitigheranno il disappunto in caso di previsione “sbagliata”. Poi la comunicazione del rischio trova una propria ragione anche in corso di evento. E in parte si fonde o si trasforma in comunicazione di emergenza, difficile distinguerle. Con un evento in corso bisogna continuare a fornire informazioni utili derivanti dal monitoraggio dell’evento e dei suoi effetti, e ricordando anche i comportamenti da adottare.
La responsabilità della tutela spetta a tutti
Quanto ho accennato più sopra sembra semplice e lineare. Ma questa linearità si scontra con la realtà. L’idea dell’autotutela per i danni causati dagli eventi naturali – alluvioni, maremoti, terremoti, temporali – e dal rischio industriale incontra ancora una certa resistenza culturale nei nostri concittadini. Il problema più diffuso è forse quello che nasce dalla convinzione che la responsabilità della tutela spetti sempre e solo a qualcun altro, che non riguardi mai il cittadino (anche nei suoi molteplici ruoli sociali). E qui entra fortemente in gioco il ruolo della comunicazione del rischio. Mi soffermo un momento sull’allerta meteo. L’allerta meteo è una cosa seria, lo sappiamo bene. Detta così, quest’affermazione suona quasi come una banalità. Ma non lo è. La parola “meteo” è la seconda più cercata su Google dopo “Facebook”. Questo dovrebbe pur significare qualcosa. Qualcosa d’importante. Ma purtroppo non è così. Quella maggioranza ben poco silenziosa è soprattutto spinta dal desiderio di conoscere il tempo che farà. Le ragioni sono principalmente due: per codificare il dress code del giorno dopo o per organizzare un viaggio, una vacanza o un fine settimana al mare o in montagna. E lì pare fermarsi l’interesse. Dunque, in un certo senso, una delle grandi sfide della comunicazione del rischio è riuscire a far sì che la normalità di quella maggioranza che vuole sapere che tempo farà comprenda l’informarsi se c’è o meno un’allerta meteo per mettere se stessi (e i propri cari e i propri beni) al riparo da possibili rischi. Questo non significa necessariamente dire loro di rinunciare tout court per esempio alla gita del weekend, ma fornire elementi per valutarne i termini di fattibilità, se rinunciare, se modificarla e attrezzarsi adeguatamente. A questo aggiungo un altro elemento. Fare comunicazione del rischio significa anche contrastare la cattiva informazione, per esempio chiarendo e ribadendo chi è il soggetto deputato a emettere l’allerta, presidiando le eventuali fake news, sia prima che in corso di evento, che sono sempre molto dannose.
E qui, non dimentichiamolo, c’è in gioco la vita delle persone. Mai come ora, è importante ribadire la centralità dell’allerta meteo per la prevenzione. Infatti, sovente si ha la percezione che l’allerta non sia considerata attività di prevenzione. Bisogna spiegare e ripetere con tenacia: è prevenzione perché ti avvisa che potrebbe verificarsi un evento e di quali danni potresti subire, esattamente come il controllo della pressione arteriosa.
La comunicazione costa
Una seconda questione è che la comunicazione costa. Costa fatica, costa impegno e costa soldi. Non si può girare intorno al fatto che servono investimenti. Servono le risorse perché chi deve garantirla possa dotarsi di un adeguato e competente team di comunicatori. Costa perché la comunicazione, come i fatti e le catastrofi non si ferma mai. Niente di nuovo direte voi. Certo, ma non posso esimermi da continuare a sottolinearlo, sino a quando la voce comunicazione non uscirà dalla marginalità in cui è ancora spesso relegata nella pianificazione economica. La comunicazione del rischio è lo strumento della prevenzione contro l’incultura dell’irresponsabilità. E non bastano le tecnologie per farla, sono le persone a renderla efficace. Le tecnologie sono un supporto in evoluzione. Il lavoro da fare è ancora tanto. Anzi, tantissimo. Perché la nostra bella e fragile Italia (e il contrasto al cambiamento climatico) ci chiedono molto di più. Più attenzione, più conoscenza, più consapevolezza, più responsabilità da parte di tutti. Più, più, più. Un avverbio indispensabile e imprescindibile, che da solo ne può compensare un altro, per sua natura opposto: meno. Meno vittime, meno morti, meno disastri. E, giudicate voi, non mi pare che questa sia una difficile equazione algebrica o una strana e incomprensibile alchimia.