Nell’esatto momento in cui mi sono seduto alla scrivania per scrivere questo editoriale, a Bologna, la città dove vivo, ha cominciato cadere copiosa la prima neve dell’anno (27 dicembre). Una delle tante piccole coincidenze senza importanza, che però non ho potuto fare a meno di notare perché in questo numero abbiamo dedicato un approfondimento alla percezione del pericolo valanghe e a come diminuire il rischio di restarne travolti. Il 15 dicembre 2014 una valanga ha travolto e ucciso due alpinisti sul Corno Piccolo del Gran Sasso. Entrambi esperti e ben equipaggiati. Uno di loro, Pino Sabbatini, oltre che guida alpina, era un collega del Soccorso alpino. Della tragedia hanno parlato molti quotidiani. Ho notato, in verità, che nei titoli si strillava meno del solito alla montagna assassina tout court, ma più alla montagna traditrice. Sfumatura che mi ha sempre portato a pensare che connoti la compli- cità sentimentale tra alpinisti e montagna e che l’alpinista abbia a che fare con un’amante abituata all’infedeltà, e che ti tradisce senza farsi scrupoli. Forse perché trattandosi di persone esperte, e in particolare di un noto e competente soccorritore impegnato a salvare vite sino a pochi giorni prima, l’attenzione si è spostata sul racconto della storia di Pino. Non voglio parlare dell’episodio in sé, ma del fatto che pian piano sulla stampa generalista accanto alla cronaca si comincia a parlare di ossessione ‘della sicurezza’ e di ’rischio connaturato all’alpinismo’. Lo ha fatto Lorenzo Cremonesi sulle pagine nazionali del Corriere della Sera. Accanto al suo equilibrato pezzo di cronaca che raccontava la morte di Pino Sabbatini e del suo compagno d’avventura Davide Remigio, in un commento Cremonesi si chiede “Come mai tanti alpinisti esperti morti in montagna? La nuova tragedia sul Gran Sasso ripropone una questione antica. Hanno compiuto imprudenze? Non sembra.” La risposta è semplice e chiara: non esiste avventura senza rischio, non esiste alpinismo senza rischio. “Comprese – prosegue Cremonesi – le lastre di ghiaccio inavvertitamente smosse da chi ci precede in una giornata che sino ad allora era stata perfetta”. Ben detto. Qualche mese prima Pierangelo Giovanetti, direttore dell’Adige, (ripreso anche da Cremonesi) commentando la richiesta da parte della Procura di Torino di rinvio a giudizio per omicidio colposo di tre amici sopravvissuti a una valanga con una vittima accaduta durante un fuori pista, ricordava che «ripropone in maniera eclatante la questione della sicurezza. O meglio, dell’ossessione alla sicurezza “totale” e obbligatoria, che è diventato uno dei miti ideologici oggi più di moda nella società dell’“assistenzialismo garantito” e del “rischio eliminato”. Anche quando si va in montagna, si cammina su un marciapiedi, o soltanto quando si salgono le scale». Giovanetti pone l’accento su come la cultura delle ’società sicuritaria’ abbia contagiato sia la cultura giuridica che quella del legislatore. E come oggi si assista al paradosso che non si ristrutturano vie di montagna perché equivarrebbe a dare a chi vi transita patente di sicurezza totale. Concordo sia con Cremonesi che con Giovanetti. Abbiamo trattato più volte di questi temi su queste pagine, e ne parliamo anche in questo numero. Sul mainstream dell’informazione incominciano qua e là a comparire riflessioni su queste tema- tiche, certo per ora quasi esclusivamente a firma di colleghi appassionati di montagna e dunque sensibili (ma che di norma trattano altro) ma mi piace pensare che sia un piccolo segnale positivo affinché esse trovino spazio di discussione. Così forse anche il legislatore e il giudice potranno trovare elementi culturali, anticorpi sani al contagio sicuritario. Infine, parlare di ossessione della sicurezza – che è bene ripeterlo non significa avvallare la cultura del no limits e la leggerezza di un fare irresponsabile – significa illuminare anche il tema dell’assunzione di responsabilità individuale. Questione che va ben oltre la pratica dell’alpinismo. Continuiamo dunque a insistere sul fatto che scalare una parete, compiere una gita scialpinistica, esplorare una grotta, affrontare una discesa di un canyon, fare un’escursione è, e deve rimanere, consapevolmente “a nostro rischio e pericolo”.
Peak & Tip, Montagne360 febbraio 2015