Di lui c’è chi dice che fa sembrare facili anche le cose più difficili. E infatti è proprio così. Questo è solo uno dei motivi per cui è interessante conoscere Andrea Lanfri e la sua storia. Non tanto ‒ e non solo ‒ per le straordinarie imprese alpinistiche che è riuscito a realizzare. L’ultima? La salita dell’Everest, il 13 maggio scorso. La straordinarietà di questa impresa sta nel fatto che lui è il primo pluriamputato al mondo a esserci riuscito. E poi già che c’era ha realizzato un altro primato mondiale, ottenuto proprio durante la spedizione per aver corso il miglio “più alto al mondo” (a 5160 metri) in meno di dieci minuti. Anzi, per dovere di cronaca lo ha coperto in soli 9 minuti e 48 secondi (record che verrà certificato dal Guinnes dei primati). Lo ha fatto sotto gli sguardi increduli dei nepalesi, in parte inseguito da un cane e con suo padre ‒ sì, l’ha accompagnato fino al Campo base ‒ che vedendolo correre a più non posso, a un certo punto gli ha urlato «Andre, fatico io per te». Di lui abbiamo scritto in più di un’occasione. Ma se parliamo ancora di Andrea e se ho deciso di dedicargli questo ritratto all’interno della rubrica è perché ritengo che in lui ci sia qualcosa che va oltre la montagna, oltre le pareti di roccia, oltre gli obiettivi alpinistici che di volta in volta si pone. L’ultimo in ordine di tempo è quello di scalare le Seven Summits, ovvero le montagne più alte di ciascun continente della Terra. Due sono già archiviate: Monte Bianco ed Everest. Il prossimo sarà il Kilimangiaro, in Africa durante l’estate. «Ma quello è “facile”, ci andremo durante le vacanze» dice Andrea con leggera ironia alla fine della prima presentazione pubblica che ha voluto fare a casa sua, in Toscana, di fronte alla sua gente di Pieve e Sant’Andrea di Compito (Capannori). Ho avuto il piacere e l’onore di dialogare con lui sul palco, quella sera. Trovo che la scelta di condividere questo successo prima con i suoi compaesani e poi con il resto del mondo sia straordinaria, perché è un tributo al senso di comunità. È un grazie a chi lo ha sostenuto nei momenti più bui della sua vita. Da quegli stessi amici ha ricevuto un regalo: un portafotografie multiplo con tante cornici quante sono le cime da raggiungere. E in due di esse c’erano altrettante foto delle vette già salite. Lì, davanti agli amici, Andrea celava l’emozione. Quella sera su quel palco era contemporaneamente l’ospite d’onore, il tecnico audio e il tecnico video. Fantastico. Non è stata una conversazione banale. Abbiamo sorriso e scherzato, facendo sembrare facili anche le cose difficili. In quel momento ho capito che chi lo conosce bene ha proprio ragione. Quella sera, appunto, abbiamo parlato di tutto. La preparazione, l’esperienza della scalata, la vita al campo base, e via e via ancora. Abbiamo parlato di alpinismo ma anche del senso di comunità. Ma di una cosa non abbiamo parlato pubblicamente: del perché è senza gambe e sulle mani ha solo tre dita. Che poi questo è anche il titolo del suo ultimo libro, “Toccare il cielo con tre dita” (edizioni Porto Seguro), di cui ho preso a prestito il titolo per questa rubrica. Non l’abbiamo fatto perché, come ho già accennato, di fronte c’erano il suo paese (quasi tutto), la sua gente, i suoi amici. Tutte persone che hanno vissuto il dramma della meningite fulminante che l’ha colpito nel 2015 e che hanno assistito alla sua personale rinascita, dalle prime corse sulle lame alla conquista dei podi ai mondiali e agli europei paralimpici fino all’ascensione dell’Everest, solo un paio di mesi fa. Lo hanno visto allenarsi un giorno dopo l’altro sui Monti Pisani, che lui conosce e ama fin da quando era bambino. Per tutte queste ragioni non c’era alcun bisogno di ripercorrere una storia nota. E con lo stesso approccio di chi fa sembrare facili tutte le cose difficili, su quel palco, quella sera, Andrea ha mostrato le protesi che lui stesso ha modificato (lo snodo che ha montato è stato pensato e progettato per donne che indossano i tacchi, e con quello ha raggiunto l’Everest), ma anche il piede di riserva che fortunatamente non ha utilizzato («Due erano troppo pesanti, quindi ho portato con me solo un piede destro. Alla peggio avrei usato due piedi destri…»). A proposito di “piedi”: uno di quelli arrivati sull’Everest sarà donato al Museo Nazionale della Montagna di Torino; l’altro è andato in Islanda, nella sede centrale dell’azienda che produce le protesi. Ma questi, per quanto importanti o prestigiosi possano essere, sono e restano dettagli. Piccole narrazioni marginali destinate alle cronache. Quello che davvero conta è la straordinaria determinazione di questo ragazzo che ha visto la morte in faccia e che fin da subito ha deciso di reagire, e per farlo ha scelto la montagna. La montagna è stata – ed è – il suo luogo di libertà e anche di cura. La passione per l’alpinismo è stata un motore importante nella sua battaglia, che lo ha aiutato a vivere una condizione difficile per trasformarla in opportunità. E mi piace pensare che la montagna gli sia stata al fianco restituendogli forza, senso e bellezza. Andrea rappresenta un esempio. Di vita, di passione, d’impegno. Qualsiasi sia il problema che ci affligge, non c’è miglior cura che porsi nuovi obiettivi e lavorare per raggiungerli, anche se l’obiettivo – come in questo caso – si trova a 8848 metri.
Peak & Tip, Montagne360 luglio 2022