
Per molti salire in alta quota avvicina in qualche modo al divino o a una spiritualità laica. Quel che invece è certo è che lassù, in alto, tra la neve fresca, ci sono uomini straordinari. Gente preparata, competente, dal cuore puro. Qualcuno, forse impropriamente, li chiama eroi. Eppure sono solo persone come tante, la cui coscienza ha in comune l’adesione irrinunciabile al valore universale della vita umana. Credono che esista una regola di comportamento che non può essere condizionata da certe leggi cieche e assolute. Del resto l’amore per la montagna ha contribuito a formare in loro quel carattere così risoluto e prodigo che oggi il mondo fatica a identificare e riconoscere. È per queste stesse ragioni che un uomo come Benoît Ducos è stato battezzato “eroe” dalla stampa internazionale. Questa definizione richiama gesta epiche. Ma a essere evocate, stavolta, non sono scene di battaglie corsare o di conquiste storiche. Se Benoît è considerato un eroe moderno lo si deve esclusivamente alla straordinarietà di un gesto ordinario, che ha messo a repentaglio la sua esistenza e che ora gli fa rischiare ben cinque anni di carcere. Se di battaglia dobbiamo parlare, quella che si sta combattendo anche sulle nostre montagne ha direttamente a che fare con l’umanità perduta. A guardarlo bene in volto, si scopre che Benoît Ducos ha davvero il tipico profilo francese. È una guida alpina, ex sciatore di primo soccorso. Lui, falegname di mestiere e volontario per vocazione, per l’associazione “Tous Migrants” esplora da due anni le Alpi, in Alta Valsusa, per soccorrere chi, impreparato e spinto dalla disperazione, cerca di superare il valico per raggiungere la Francia nonostante le proibitive condizioni. Un sabato di marzo, non senza difficoltà, ha visto farsi largo nella neve un’intera famiglia di migranti. A quasi millenovecento metri di altitudine, nei pressi del passo del Monginevro, c’erano due bambini piccoli (di quattro e due anni) con i loro genitori. Per la donna, incinta, era iniziato il travaglio. Benoît non ci ha pensato un attimo di più: li ha soccorsi e fatti salire in auto per trasportarli in tutta fretta all’ospedale di Briançon. Sulla loro strada hanno incontrato la gendarmerie francese, che li ha bloccati. Per più di un’ora hanno trattenuto la donna perché clandestina – il parto è avvenuto solo dopo, con taglio cesareo d’urgenza, a seguito dell’intervento dei pompieri – mentre la guida alpina è stata accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina solo per aver fatto viaggiare su una vettura i migranti bisognosi di cure mediche.
«Ho spiegato ai gendarmi come sono andate le cose. E ho anche aggiunto che se accadesse di nuovo, be’, lo rifarei» dice Benoît. Quella risposta così semplice e apparentemente scontata illumina qualcosa di profondamente ingiusto. No, non mi riferisco ai cinque anni che Benoît rischia di trascorrere in carcere (anche se non li dimentico e non so quale sarà stata l’evoluzione ne quando leggerete questa storia. Non sono un avvocato, ma credo che in Italia Benoît non rischierebbe il carcere perché il Codice di procedura penale all’art. 54. recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Un gesto di umanità non può essere un reato. Penso invece alla disumanità cui si è opposto con quel semplice gesto di disobbedienza civile. L’umanità e la civiltà dell’uomo che ama la montagna e la vita, qua si contrappone alle scelte di un Paese che, dall’Eliseo in giù, pare aver perso l’onore. Lo ha perso quando, nello stesso periodo, una storia simile a quella della famiglia soccorsa da Benoît si è conclusa nel peggiore dei modi. Penso alla nigeriana Beauty. Un nome che avrebbe dovuto segnare in positivo il suo destino, ma così non è stato. A poco più di trent’anni, incinta e malata, è stata respinta dal confine francese. La polizia l’ha abbandonata davanti alla stazione di Bardonecchia. L’ha soccorsa un medico italiano (un altro eroe?) ed è stata ricoverata all’ospedale di Rivoli (prima) e al Sant’Anna di Torino (poi). È morta un mese dopo in sala parto. Ma Israel, il suo bambino, è salvo e pesa qualcosa in più di settecento grammi. E allora mi torna in mente la risposta di Benoît (“lo rifarei”) e penso che in quelle parole scritte da Bertold Brecht nella Vita di Galileo (“sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi”) c’è la fotografia dell’attuale infelicità del nostro presente. Ma finché sulle montagne continueranno a esistere e a intervenire con coraggio grandi uomini normali come la guida Benoît Ducos, allora potremmo dire che la battaglia di civiltà non è persa. Non ancora.
Peak & Tip, Montagne360 maggio 2018