Quello che stiamo vivendo è «un tempo senza nome, che a volte passa velocissimo e a volte non passa mai. In questa reclusione eccezionale, anormale, passo il tempo a sognare il domani. Io sono per guardare il domani, voglio vederlo il domani, anche se devo cambiare il piano che faccio. Gli uomini hanno bisogno di stare vicini. Non c’è un futuro senza vicinanza, senza stare insieme». Non sono parole mie, ma del direttore d’orchestra Ezio Bosso, che ho ascoltato qualche giorno prima di Pasqua durante una puntata di Propaganda Live, su La7.
È proprio così, insieme a lui tutto il mondo sogna il domani. E questo domani, che è anch’esso senza nome, ha a che fare con il “dopo”. Sì, perché c’era un prima, c’è l’adesso e ci sarà il dopo. Il “dopo” – quello inteso come vittoria sul Coronavirus, cioè quando ci saranno sia il vaccino sia i farmaci per guarire dalla malattia – è ancora relativamente lontano. Adesso dobbiamo pensare a come convivere con il virus e a come riorganizzare il nostro modo di vivere appena la sua morsa si allenterà. E sappiamo che dovremo cambiare tutti i nostri piani per continuare a stare vicini. Perché se c’è una cosa che questa pandemia ci ha fatto toccare con mano è che stare vicini è una dimensione molto più ampia di quella legata alla sfera degli affetti personali. Stiamo vicini perché lavoriamo insieme, studiamo insieme, andiamo in montagna insieme. Facciamo quasi tutto insieme. Anche quando manteniamo le distanze. Perché la vicinanza e la distanza sono tra gli ingredienti base delle relazioni tra le persone. Anche noi che andiamo in montagna dovremo cambiare il modo di frequentarla. Al senso del limite che già ci contraddistingue dovremo aggiungere il senso “del limite sociale”, ad esempio per rispettare una probabile restrizione nell’accesso ai rifugi. E pazienza se dovremo fare un po’ di fila per il panino. Ma soprattutto, con grande responsabilità, dovremo tornare in montagna senza assaltarla nei nostri primi giorni di libertà. Dovremo riprendere piano piano, con lentezza, a scalare, a percorrere creste, camminare sentieri, esplorare grotte, scendere canyon, scivolare sulla neve e pedalare. E poi, se partissimo all’arrembaggio faremmo un danno anche alla natura e agli animali, che in questi mesi hanno goduto di un po’ di spazio, privi dell’ingombro degli esseri umani. E ancora dopo mesi di clausura, con la voglia di montagna che impazza in noi, il rischio di farsi male aumenta. E qui dobbiamo pensare anche ai tecnici del nostro Soccorso alpino e speleologico, al maggiore rischio che correrebbero (anche rispetto al Covid-19) se si trovassero ad affrontare un picco di incidenti appena si potrà tornare sulle vette e sui sentieri. Nelle conversazioni di queste settimane – rigorosamente a distanza – ho chiesto ai miei interlocutori: «Qual è la montagna che ti aspetta?». La maggior parte non ha dubbi: la montagna di casa, quella più vicina. Ovvero quella su cui hanno mosso i primi passi. Tutte le altre arriveranno dopo. Credo che ciò sia un effetto positivo di questo tempo senza nome, che ci ha fatto ripensare a ciò che è vicino a noi. Per i tanti che vivono in città, il pensiero va a quelle montagne che da tempo non consideravano più tali: la montagna che non era più montagna torna a essere montagna. Non so se questa riscoperta, unita alle direttive che dovremo rispettare, darà un nuovo slancio al turismo di prossimità; sicuramente, fin da subito, dobbiamo cogliere l’occasione per reinventarci un modello per questo tipo di turismo (e non solo). Per non renderlo episodico e per far sì che la montagna marginale smetta di essere tale. Ma c’è ancora una questione generale. Come vogliamo che sia questo “dopo”? Ci sentiamo ripetere spesso che “niente sarà più come prima”. Fanno riflettere le parole di uno scritto recente di Marco Revelli, storico e sociologo, che mettono in guardia sul fatto che in molti stanno lavorando perché “tutto sia come prima”. Se così sarà, allora questa emergenza non ci avrà insegnato nulla. Nulla sul nostro rapporto con il pianeta, nulla sull’irresponsabilità di questo modello di sviluppo e sul deficit ecologico. Come sarà dipenderà dalla capacità di non dimenticare e dalla capacità di correggere gli errori di ieri e di oggi. Dobbiamo subito pensare a un modello, a una visione – o anche a un’utopia – per uscire da questo deficit di ecologia della mente, del cuore e di una politica lungimirante. Allora ecco che per guardare il domani dobbiamo “cambiare i nostri piani”. Ciascuno di noi per primo. Solo così lo costruiremo. Lo scrittore Alessandro Baricco sostiene che in questo tempo dobbiamo passare all’audacia e, allora, alla riflessione aggiungo un altro stimolo di Revelli che va in quella direzione: adesso bisogna reinventarsi e lavorare perché «nulla deve essere più come prima». E anche questo è un modo per stare vicini. Alla vita delle persone, al pianeta, alle montagne. Se ci riusciremo, allora il “dopo” che verrà sarà bellissimo.
Peak & Tip, Montagne360 maggio 2020